Adolfo Denci

Scoprire un archivio fotografico d'altri tempi, poter aprire quelle scatole originali costruite con materiali pesanti contraddistinte con etichette dai caratteri ormai desueti ed opacizzate dall'usura del tempo, è un'esperienza senza dubbio affascinante. E' quello che è accaduto a Carlo Bonazza, un attento fotografo che da sempre lavora sulla sua terra: la Maremma. Trovare quella serie ordinata di scatole, che hanno custodito per così tanto tempo il prezioso tesoro formato da circa duemila negativi di vetro dai vari formati, fa parte della sua ricerca: da anni Carlo Bonazza percorre e ripercorre i suoi territori, nei primi anni seguendo l'occhio e l'intuito propri del fotografo, poi sviluppando la curiosità tipica del ricercatore.

Nel 2000, a Grosseto, nasce il progetto «L'Invenzione della Maremma», un'esplorazione tra i vari e discordanti miti costruiti nel corso del tempo intorno a questa terra: dal buttero al brigante, dalla caccia al cinghiale alla marchiatura delle vacche. Il fotografo, insieme ad un gruppo di amici grossetani che da sempre vivono e studiano la cultura di quelle terre, partecipa ad una ricerca su storia e mito di quei luoghi che, fino alla prima metà del Novecento, erano costellati da acquitrini dove vivere era duro e anche malsano. Era inevitabile che il gruppo incontrasse Idelbrando Denci, pronipote del fotografo ed erede dell'archivio. Dico inevitabile perché in Maremma l'attività del Denci era nota da sempre e già negli anni '90 la Soprintendenza di Siena rispolverò e restaurò un ricco numero di lastre al bromuro d'argento che in seguito vennero attribuite al Denci. Quei negativi raffiguravano soprattutto monumenti ed immobili con particolare valore storico-artistico catalogati già all'inizio del '900 e pubblicati nell'elenco degli «edifizi monumentali in Italia». Oggi, siamo venuti a conoscenza di un insieme più completo ed articolato della produzione del Denci.

Nel 1881 a Pitigliano, una piccola cittadina storica arroccata su uno sperone di tufo nella Maremma meridionale, nasce Adolfo Denci. La famiglia è di modeste condizioni, ma la sua intelligenza e sensibilità lo conducono, giovanissimo, ad intraprendere come autodidatta l'attività di fotografo, l'unico di tutta la zona, confrontandosi con gli amici e gli intellettuali del posto, che erano anche i suoi committenti. Il suo lavoro si svolge nel ristretto orizzonte sul quale si affaccia la terrazza del suo studio. Fotografa matrimoni, cerimonie, raduni, gite, gruppi, uomini, donne e bambini tutti compresi nei confini della loro quotidianità. La vita della gente di quel territorio è documentata con dovizia di particolari e con precise inquadrature.

Scorrendo le fotografie la nostra memoria si riattiva, o si forma. Le nostre fantasie, costruite sui racconti dei nonni, vengono circoscritte e si concretizzano nei gesti, negli abbigliamenti, negli sguardi. Ci raccontano un passato spesso rimosso.

Adolfo Denci è attivo durante tutto il ventennio fascista e coglie la quotidianità di quel periodo con una naturale attenzione. Soprattutto per questo il suo archivio è di particolare interesse. Infatti, siamo abituati a vedere la rappresentazione di quegli anni con immagini di sfilate, cortei, uomini politici: fotografie scattate principalmente con l'intento di immortalare la grandezza del regime. Più raro vedere dei veri e propri reportage sulla vita quotidiana di quel periodo. Nel lavoro del Denci tutto questo è documentato con una meticolosa semplicità. Lontano dagli sfarzi della capitale, dove si celebrano le grandi opere del regime, nella cittadella di Pitigliano la gente assimila i simboli di quella cultura.

Ci troviamo di fronte a gruppi ben composti dove il capostipite troneggia nel centro dell'inquadratura circondato dalle donne, da giovani spavaldi che indossano camicie nere e da paffutelli bambini goffamente ripresi nella loro striminzita divisa da giovane balilla. Gruppi di ragazze fiere del loro ruolo di donna «creata per la maternità» operose nel ricamo e nel cucito. Piccoli balilla posano incerti accanto alle bambine vestite da «giovani italiane» alla fine della recita. Adunanze pubbliche nella piazza di Pitigliano dove manifesti inneggiano al Duce. Gite collettive per celebrare il «sabato fascista», scolaresche ordinate obbligate alla somministrazione collettiva dell'olio di fegato di merluzzo o schierate per la pratica di geometrici esercizi ginnici. Il tutto immerso in un'atmosfera di campagna. Un'atmosfera di grande intimità che permette di cogliere la dimensione quotidiana di quel periodo, in cui sguardi fieri si affiancano a quelli più incerti che si risolvono in gesti impacciati.

Molti ed interessanti particolari si leggono nelle fotografie del Denci, che lavorava con una pesante ed ingombrante macchina in legno di grande formato: le case che fanno da sfondo sono case di contadini, i vestiti che si indossano sono semplici, le scarpe dei bambini hanno suole imbullettate. Nel suo insieme questo lavoro, pubblicato in un libro ben stampato, ci rimanda un'immagine meticolosa e curata, ma non priva d'affetto, della provincia maremmana dell'Italia di quegli anni. Purtroppo Adolfo Denci non ci ha potuto raccontare la fine della storia. Nel giugno del 1944 muore nello stesso luogo dove era nato, sotto i bombardamenti anglo-americani.

Patrizia Bonanzinga
aprile 2005

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