Wim Wenders

«I luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso nella pietra. È più profondo delle acque più profonde. È come sabbia delle dune, che si sposta di continuo.» Con queste parole, scritte a Los Angeles nell'agosto del 2001, Wim Wenders presenta, per la prima volta, una selezione di 59 fotografie dall'enorme formato esposte tra luglio e agosto nelle belle e grandi sale delle Scuderie del Quirinale a Roma che hanno permesso di ospitare tali gigantografie.

Wenders ha passato tutta la sua vita a guardare dentro un obiettivo. Quello della macchina fotografica lo ha sempre accompagnato accanto a quello della macchina da presa: i due mezzi si integrano reciprocamente recandogli un mutuo beneficio. Nel corso del tempo ha collezionato qualche decina di migliaia di negativi che non ha mai esposto perché aveva il desiderio di stamparle in un enorme formato, non perché «grande è bello» e faccia tendenza, ma perché la sua aspirazione era quella di trasmettere la potenza del paesaggio: sopraffare lo spettatore con un impatto visivo simile a quello che lui stesso aveva provato di fronte a quei paesaggi.

Dal 1977, suo primo soggiorno in Australia, Wenders viaggia con una macchina fotografica di medio formato, la Plaubel Makina. Successivamente, affascinato dall'ampiezza dello spazio, decide di passare al formato panorama, prima usando la russa Horizon 35 mm e poi la Fuji 617 che garantisce un'eccezionale definizione ed una estrema profondità di campo su negativi 6 × 17 cm.

Le fotografie di Wim Wenders partono sempre da un panorama. A chi gli domanda in quale modo colga le sue visioni racconta che spesso, quando viaggia con la macchina fotografica, si sente chiamato. È il luogo che gli racconta la sua storia: il colore, la forma, la materia entrano nel suo sguardo ancora prima che lui se ne accorga; è così che scopre, quasi sempre, di essere arrivato nel luogo che stava cercando. Le sue sono fotografie di luoghi e spazi dove la presenza umana è quasi sempre assente come a significare che l'uomo non possiede la terra, ma viceversa è la terra stessa che lo possiede. Anche se noi crediamo che i nostri insediamenti, ciò che abbiamo costruito usando la natura, siano grandi ed importanti, essi sono ben poca cosa: in realtà è la natura che ci sovrasta.

Le sue immagini hanno come comune denominatore il mito del viaggiatore solitario, ciò che rende presente la transitorietà di ogni essere. Come un altro famoso viaggiatore, Bruce Chatwin che usava la fotografia come complemento alla sua scrittura, Wenders usa la fotografia come espansione della pellicola cinematografica. Osservando la fotografia dei ragazzi che giocano a baseball, ripresa all'Avana nel 1998 quando stava girando Buena Vista Social Club, ci accorgiamo che l'autore impiega il formato panorama per fissare l'impressione del movimento in modo tale da avvicinarsi al mezzo cinematografico mentre lo scatto fisso assume una forte componente narrativa. Infatti per Wenders un momento decisivo della fotografia è la percezione del tempo: l'immagine cinematografica rappresenta l'illusione del presente, quella fotografica fornisce la coscienza del passato, possiede qualcosa di definitivo. Inoltre per l'autore, le fotografie devono «narrare delle storie» perché contengono una sorta di verità in quanto vedere significa riconoscere: «Per me vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, significa prenderne le distanze.»

Guardando le fotografie di Wenders è inevitabile il riferimento ad Edward Hopper che, secondo l'autore, rappresenta nel campo della pittura il creatore di immagini per eccellenza, colui che è in grado di far coesistere il desiderio di vedere e quello di raccontare. Dice di Hopper che ha «sempre preso le mosse da un luogo preciso, anche là dove i suoi quadri assumono astrattezze e validità universale... Crea immagini in stato d'attesa... i quadri di Hopper sono anche inizi di storie.» E molte delle fotografie di Wenders sembrano una trasfigurazione dei dipinti di Hopper create con un punto di vista che porta ad immaginare molte e possibili storie.

Wenders è poi ammirato dai lavori di Walker Evans e Robert Frank. In particolare, il lavoro che Evans svolse, per conto della Farm Security Administration, nel periodo della Grande Depressione nel Sud degli Stati Uniti, ha spesso guidato le scelte dell'autore sia in ambito cinematografico sia in quello fotografico. I paesaggi urbani della città di Butte, Montana, richiamano atmosfere silenziose battute unicamente dal sole e dal vento: inquadrature dalle prospettive frontali che pongono i soggetti fuori dal contesto e gli attribuiscono una teatralità peculiare alla solitudine del paesaggio statunitense.

Poche sono le presenze umane nei grandi e accesi formati di Wenders. Là dove sono riprese, esse sono presenze solitarie e mai in primo piano, ne compongono solo un frammento dove lo sguardo si sofferma perché ne viene di sorpresa attratto. Come in Woman in the Window, 1999, dove la piccola figura di una donna di colore è seduta, quasi abbandonata, sul davanzale di un edificio d'epoca dai toni scuri. Il viso è pensieroso, lo sguardo lontano. E sopra di lei, sopra i cornicioni orizzontali del palazzo, i grattacieli color azzurro di Los Angeles svettano in verticale a confondersi con il colore del cielo. Anche in questa fotografia, scattata nel centro di una delle città più popolate e più trafficate al mondo, uno stato di solitudine silenziosa crea la solita sospensione tra lo spazio e il tempo.

Patrizia Bonanzinga
settembre 2006