Scatti cinesi

La Cina fa sempre più parlare di sé. La fase della modernizzazione del paese, voluta da Deng Xiao Ping nel lontano 1985, ha assunto dimensioni ciclopiche. Le riforme economiche hanno aperto il mercato cinese al resto del mondo e permesso lo sviluppo dell'espressione creativa che molti autori cinesi avevano represso fino allora. Ciò era inevitabile, ma è comunque molto interessante seguire la rapidità di tale sviluppo e la necessità dei vari autori a colmare il vuoto del periodo maoista.

In particolare, ripercorrendo le tappe storiche più salienti ricordiamo che, mentre in occidente l'arte spesso raffinata della fotografia ottocentesca aveva subito, all'inizio del Novecento, una vera rivoluzione quando si diffuse la riproduzione sistematica delle fotografie, in Cina ancora si era molto indietro. Tanto che, in Occidente, abbiamo per lo più visto fotografie storiche della Cina scattate da autori occidentali attraverso lo sguardo occidentale. Tra le prime immagini che arrivarono ci sono quelle del veneziano Felice Beato, uno tra i primi fotografi a svolgere la professione di reporter in Cina. Già nel 1860 Beato si era recato ad Hong Kong dove cominciò a documentare i preparativi per la Seconda guerra dell'oppio. Successivamente, si trasferì a Canton dove si imbarcò con i militari inglesi per raggiungere Dagu, il luogo della battaglia di cui resta la prima documentazione fotografica.

Altro italiano eccellente, missionario e fotografo, è padre Leone Nani che tra il 1903 e il 1914 ha fotografato la Cina rurale e non solo, lasciando un materiale di enorme interesse recentemente esposto nella mostra «La Cina Perduta» di Leone Nani realizzata a Milano dal Pime (catalogo recensito nel numero di dicembre di questa rivista). Decenni dopo, con il maoismo, ci tuffiamo nella fotografia di propaganda. Dopo la sua caduta i problemi rimasti aperti richiedevano soluzioni immediate mentre il livello del trauma psicologico tra la popolazione era profondo. Ritroviamo tutti questi elementi nella produzione artistica della fine degli anni Settanta che hanno visto il gruppo Stars protagonista della scena.

Il gruppo era costituito principalmente da artisti dilettanti che si opponevano al divieto di festeggiare la festa Nazionale Cinese a Pechino. Con un'ispirazione di tipo occidentale, adottarono un approccio decisamente modernista convinti che l'arte dovesse avere prima di ogni cosa una vocazione politico-sociale. Manifestando per le strade in difesa della loro causa, Stars è diventato capo-fila dell'avanguardia artistica cinese e ha giocato un ruolo determinante non solo nel mondo della produzione artistica, ma ha anche favorito la nascita di altri movimenti: Scar Literature, nel settore della letteratura, Four Generation in quello della cinematografia e April Photography Group in quello della fotografia concettuale.

Gli appartenenti a quest'ultimo gruppo si ponevano l'obiettivo di porgere maggiore attenzione alla realtà sociale e oggi si può affermare che con quel movimento la fotografia contemporanea cinese ha cominciato a formarsi ed a crescere con una coscienza autonoma rispetto ad altre discipline.

Questa rapida panoramica storica vuole solo porre l'accento sulla rapidità dello sviluppo dell'attività degli autori cinesi che dal 1995, dopo un'altra lunga pausa seguita agli eventi tragici di piazza Tienanmen (1989), hanno prodotto un'enorme quantità di lavori. La Francia, attenta osservatrice, ha dedicato il 2004 alla Cina e, tra le varie manifestazioni culturali, è elencata Pingyao à Paris.

Il festival di Pingyao, piccola cittadina storica ad ottocento chilometri a sud-ovest di Pechino, nel settembre del 2003 ha visto la sua terza edizione. A conferma dell'importanza che tale manifestazione sta assumendo, Alain Jullien, direttore artistico del festival di Pingyao, ha proposto di esporre dal 6 febbraio al 28 marzo nei locali della biblioteca MK2, nel 13mo arrondissement di Parigi, le opere dei tredici autori cinesi selezionati da giurie internazionali, nel corso delle edizioni del 2003 e del 2002, per il premio Alcatel, per il miglior libro di fotografia e per il premio l'Oreal per la fotografia contemporanea cinese.

Il festival di Pingyao (tenutosi lo scorso settembre) è il più importante del genere. Nato con l'obiettivo di dare spazio alla fotografia cinese per confrontarsi con quella occidentale, senza escludere la possibilità di far conoscere la storica città di Pingyao. La manifestazione Pingyao à Paris mostrerà una molteplice varietà di autori cinesi. Le opere di Liu Zheng, che utilizzano sempre riferimenti alla storia della fotografia o i grandi formati di Miao Xiaochun, che inserisce una replica di se stesso nelle sue immagini, potranno essere viste accanto al ritratto umoristico e caloroso della societàcinese che ci offre Wang Fuchun nel suo lavoro «I cinesi nel treno». La giustapposizione dei ritratti di Jiang Jian con il lavoro classico ed impegnato di Xu Yong che ci mostra con uno sguardo malinconico la distruzione della vecchia Pechino, non è proposta per impressionare, ma per tentare di capire.

Ma facciamo un salto indietro per ripercorrere le proposte che la terza edizione del il festival di Pingyao ci ha offerto.

Il viaggio è molto lungo e faticoso. Dopo più di 30 ore, l'arrivo a notte fonda a Pingyao rivela qualcosa di magico. Un profondo silenzio, solo un residuo di luna e i deboli fari dei pulmini elettrici illuminano le strette vie lastricate in pietra. I pulmini si alternano traballanti, ingoiati dal buio e dal silenzio, seguendo la geometrica prospettiva della classica città cinese.

La terza edizione del festival, che apre a poche ore dall'arrivo, si presenta con una quantità incommensurabile di mostre, immagini e autori. L'Associazione dei fotografi cinesi, ben radicata in Cina, è entrata a far parte dell'organizzazione portando con sè un totale di circa 6000 immagini da selezionare per un numero non ben identificato di mostre a conferma che la Cina resta sempre un paese dai grandi numeri.

Alla cerimonia di apertura una massa umana sconfinata, rigorosamente allineata, composta, seduta su piccoli sgabelli e divisa per settori a seconda del colore del berretto che indossava, ha invaso il vasto piazzale antistante la porta nord della città. A ridosso delle mura, un enorme palco ha ospitato le numerose autorità per i discorsi ufficiali di apertura, ma anche cantanti, balletti, contorsionisti, musicisti e molto altro ancora.

Anche la città di Pingyao, nonostante sia un sito protetto dall'Unesco come patrimonio dell'umanità, segue l'andamento della modernizzazione con il rapido sviluppo del settore immobiliare e dei commerci. In particolare, nello spazio della Warehouse l'operosità cinese ha realizzato un'ampia costruzione in vetro e muratura concepita come punto di ritrovo per il festival. Lungo le strade, nella parte centrale della vecchia città, i negozietti di antiquariato si sono riprodotti a dismisura per soddisfare soprattutto la domanda dei turisti cinesi.

Cominciamo a percorrere i locali della Warehouse, questa ex fabbrica di manufatti locali a nord della città, dove è raggruppato il maggior numero di autori stranieri tra cui spiccano nomi come Sebastião Salgado e Martin Parr.

Il lavoro che sicuramente colpisce di più per il suo sconcertante realismo è quello di Lu Guang (secondo premio l'Oreal per la fotografia contemporanea). Negli ultimi anni Lu Guang è tornato almeno venti volte nei villaggi di campagna della provincia dell' Hunan dove almeno un milione di persone sono contaminate dal virus dell'Aids. Lu Guang ci spiega che nell'Hunan la causa dell'Aids non sono né le relazioni sessuali, né il consumo di droga. La causa è dovuta alla povertà. Per dar da mangiare ai loro figli ed inviarli a scuola i contadini hanno venduto il loro sangue. In certi villaggi il 40% della popolazione è affetta dalla malattia. Molti bambini sono rimasti orfani e senza casa.

Ed è proprio dall'incontro con una bambina malata, che dall'Hunan arriva a Pechino per curarsi, che il fotografo comincia ad interessarsi al problema. Il business del sangue ha inizio nel 1993 ad opera di imprenditori senza scrupoli che prelevano il sangue, selezionano quello che serve per produrre albumina, che in seguito venderanno, e poi lo restituiscono ai corpi dei donatori affinché questi possano ridonarne in tempi rapidi: il tutto per 40 yuan (4 euro circa) a trasfusione. Nel 1995, un medico della provincia del Hubei scopre il traffico e comincia ad occuparsene combattendo con grandi resistenze a livello governativo. Oggi il medico ha pubblicato un libro con le fotografie di Lu Guang ed esiste una scuola che ospita sessanta bambini orfani. Questo reportage è stato pubblicato su qualche giornale cinese, ma mai all'estero.

Accanto alle crude fotografie colore di braccia e visi scavati dalla malattia, il lavoro in bianconero dello sloveno Klavdij Sluban, naturalizzato francese, sembra un sogno. L'autore lo ha chiamato «Ex» ed è una collezione di fotografie scattate tra il 1997 e il 2001 viaggiando, tra gli altri, nei paesi baltici. L'atmosfera cupa e sobria trasmette una forte tensione: una donna velata di nero, di cui si intravede solo il naso sfocato in primo piano e sullo sfondo il profilo di una testa di un ragazzo riflessa sul vetro della bacheca che sta trasportando. Siamo in Turchia, forse all'interno del groviglio di un bazar. L'immagine evoca i suoni, gli odori di quei luoghi. Klavdij Sluban va sicuramente oltre la documentazione: il suo intento è quello svelare all'osservatore quella tensione che lui stesso vive nel momento dello scatto. La realtà la usa solo come pretesto per poter trasmettere la sua visione.

Alcuni scatti, particolarmente sgranati, assumono quasi valenze pittoriche. Sluban lavora da anni su due filoni paralleli: la fotografia di viaggio e la reclusione volontaria. Dal 1995 frequenta le carceri per adolescenti, non solo quelle francesi, ma anche quelle dei Paesi dell'est e dell'ex Unione Sovietica. Organizza dei workshop di fotografia con apparecchi usa e getta ai quali ha spesso partecipato anche Henri Cartier Bresson.

Dopo la serietà e l'impegno che le fotografie di Sluban trasmettono, passare ad osservare il lavoro di Sylvia Plachy è senza dubbio molto piacevole. Lei, di origine ungherese che dopo la rivoluzione del 1956 si fa adottare da New York, con due occhi azzurro intenso, madre del famoso Adrian Brody (attore protagonista del «Pianista»), è una tra le autrici più eclettiche che si possano incontrare. Il suo lavoro, dal titolo «Animal Life», è un insieme di visioni ironiche sul mondo degli animali, e anche un po' spietate per i parallelismi che si possono fare con la vita dell'uomo. Gli scatti hanno formati diversi: dai panorama della Widelux, una 35mm meccanica ad obiettivo rotante, alla Holga, una vecchia macchina cinese formato 120 che sfoca un po' ai bordi, dall'Hasselblad alla Rolleiflex, fino alla Leica. Scatti a colori, in bianconero, stampa in formati quadrati, panoramici, rettangolari... proprio a descrivere le molteplici sfaccettature della vita di noi animali.

Lori Grinker, con «After War», ci richiama subito alla cruda realtà indagando gli effetti delle guerre sugli individui che le hanno vissute. Dalla metà degli anni ottanta la fotografa percorre i territori che sono stati palcoscenico di violenze: Vietnam, Giappone, Cambogia, Etiopia, Rwanda, Salvador... Tra gli innumerevoli scatti collezionati da Lori Grinker, la selezione proposta, dai profondi colori, è incalzante e non dà speranza: visi dagli sguardi stanchi e persi nel vuoto, corpi mutilati, istituti di riabilitazione, a dimostrazione del fatto che aver vinto o aver perso è in fondo la stessa cosa.

Percorrendo ancora i locali della Warehouse incontriamo «Made in China» di Rhodri Jones, una selezione del quale è stata esposta anche a Roma in occasione di FotoGrafia, il festival internazionale che si svolge nella capitale da due anni. Da diversi anni Jones viaggia nel vasto territorio cinese cercando di cogliere l'arrivo della modernizzazione nei luoghi più remoti. La documentazione dalle belle inquadrature è chiara ed interessante.

Tra gli stranieri presenti in questa edizione, non può sfuggire Christopher Taylor esposto nel tempio taoista. «Steles» è composto da una serie di fotografie bianconero grande formato, stampate in modo superlativo dall'autore stesso, su carta baritata Ilford, scattate con una vecchissima Rolleiflex. Il soggetto è una Cina desolata; lunghe prospettive, tombe, gruppi di pietre, dettagli. L'autore apprezza le immagini semplici, essenziali. Osserva i dettagli, microcosmi del mondo a cui appartengono.

Nella stessa atmosfera del tempio taoista, troviamo le opere di Alexandra Sa che espone «Chinatown» montate su light-box: immagini a colori riprese nel 13mo arrondissement di Parigi, appunto la Chinatown parigina. Il lavoro di Alexandra Sa è allegro, pieno di buon umore e rende lo spirito leggero. In realtà, non è solo un lavoro fotografico, ma anche, per così dire, una specie performance in quanto, dopo aver impostato la macchina, autoscatta le azioni che lei stessa compie. Il risultato è gradevole e i luoghi che esplora, dove la sua figura in azione è costante, sono pieni di umorismo: un tempio buddista dentro un parcheggio, un biliardino in mezzo alla strada. Tutto ciò sembra ben descrivere il tipo di vita dei cinesi espatriati.

Tra i molti curatori della manifestazione, troviamo Monica Demattè, sinologa italiana che vive in Cina da molto tempo, che propone «Is it I?» (come dire: sono io?), una mostra che tocca un tema interessante e poco sviluppato in Cina: il rapporto con il proprio «io». In realtà, è opinione comune che il pensiero e il comportamento degli occidentali siano soprattutto individualisti, mentre per gli orientali l'individuo esiste solo in relazione con la comunità e con il ruolo che in essa gioca. Discorso senza dubbio complesso che Monica Demattè ha sviluppato chiedendo a tredici autori cinesi di produrre, appositamente per questa mostra, lavori nuovi. Il risultato è di estremo interesse.

E ancora percorrendo le vie della città incontriamo templi e dimore tappezzate di fotografie. Si vede veramente di tutto. All'ultimo piano del Hungqizhai Courtyard espone Bogdan Konopka, fotografo polacco che vive a Parigi. Presenta «Paris in Grey» un lavoro svolto tra il 1994 e il 1996 con il banco ottico, in rigoroso bianconero. La particolarità di questo autore è che non ingrandisce mai nessuno scatto: le stampa a contatto prive di bianchi e di neri. Solo sfumature comprese tra i grigi chiari e i grigi scuri che la carta baritata Foma ben rappresenta.

A Pingyao sono esposte cinquanta delle centodiciotto fotografie del progetto intero: piccoli ritratti, ripresi per lo più all'alba, di una città vuota, sospesa, che sembra non esistere. Cortili, piazzette, stradine, scale in pietra svelano quel mondo come una fantastica miniatura. Ci viene in mente Italo Calvino che con le sue «Città Invisibili» sottolinea appunto il fatto che le città sono troppo reali per essere vere.

Per finire il rapido sguardo sulla presenza straniera al festival, non si può ignorare la mostra portata dal Fnac (Fondo Nazionale di Arte Contemporanea) di Parigi. Vale la pena ricordare Shi Guorni che con il suo lavoro sulla Grande Muraglia sembra seguire al meglio il motto di Picasso: «Non bisogna imitare la natura, ma piuttosto seguirne il metodo». L'autore trasforma una torre dalla imponente costruzione in un'enorme camera oscura. Dopo 50 ore di esposizione ha ottenuto un'immagine, che ha stampato in negativo con enorme formato, dove il tempo si vede materialmente passare con le varie posizioni che la luna occupa sulla stampa.

Ritorniamo agli autori cinesi, che sono veramente un'infinità. Tra le mille fotografie che invadono il tempio di Confucio, si intravedono quelle di Li Lang, esposte purtroppo molto male. Li Lang ha lavorato per anni sulla minoranza Yi, che vive sulle montagne Daliangshan, nella provincia dello Yunnan a sud della Cina. La cultura degli Yi è tramandata da duemila anni dal sacerdote Bimo che pratica dei riti usando parole spirituali e mortali. Riti che si avvicinano a quelli praticati dagli sciamani che il fotografo rende con fotografie bianconero dal grande formato e dalle stampe un po' grigie che comunque trasmettono una bella atmosfera.

Quest'anno, l'ex fabbrica tessile dove l'anno scorso era concentrata tutta la produzione contemporanea cinese, è stata completamente aperta ed allestita per l'occasione. Enormi stanze ancora piene di vecchi macchinari dove sono appoggiate centinaia di fotografie. Qui troviamo Song Chao, fotografo e minatore. Lavora in una miniera nella provincia dello Shandong dove è riuscito ad allestire, con un telo bianco, una sorta di «luogo di posa» dove invitava i compagni minatori a posare per lui dopo il loro turno di lavoro. Il risultato segue le orme di Avedon: primi piani tagliati con sguardo in macchina; il tutto forse un po' troppo forzato e che non testimonia molto bene la vera vita dei minatori in Cina.

Molto crudo è invece il reportage di Jia Yu Chan che segue la storia di A Li, una ragazza di ventidue anni che incontra casualmente per le strade di una città al sud della Cina. A sedici anni i genitori di A Li si separano e la lasciano sola. Costretta dunque a lasciare il villaggio parte verso la città del sud dove trova lavoro presso un barbiere che ben presto si manifesta per quello che realmente fa: ingaggia ragazze che costringe a drogarsi per poter far di loro ciò che più desidera. La macchina fotografica di Jia Yu Chan segue la vita di A Li diventata una schiava del sesso e della droga.

Ancora su molto altro varrebbe la pena di scrivere: il lavoro di Tang Guo, panoramiche bianconero che ritraggono corsi d'acqua, quello di Zhou Hai che documenta l’industria pesante cinese, e ancora molti altri.

Patrizia Bonanzinga
febbraio 2004

Fotografia Reflex